Era il tempo degli “angeli del ciclostile”

MEMORIE DI UN EX SESSANTOTTINO (Parte prima)
Dal blog  http://francoazzurro-politicaeconomia.blogspot.com                                                                                                                           

 Ricorre quest’anno il quarantennio di quello che è passato nell’opinione pubblica come la “sbornia” di una turbolenta fase della nostra storia, nota come contestazione a tutti gli autoritarismi, che ben presto si sviluppò in azioni di massa, trasformando alle radici i comportamenti ed i linguaggi sociali.
A me che nell’autunno di quel fatidico 1968 ero studente-lavoratore, la prima cosa che viene in mente è la lunga occupazione dell’ateneo che mi costrinse a ritardare di un anno la discussione della tesi. Ma il tempo, si sa, sana i fatti sgradevoli per lasciar riaffiorare i momenti più significativi. A ricordarmelo è stato il gioioso corteo delle centomila “contro la violenza sulle donne” del 24 novembre scorso a Roma quando, a margine di quella kermesse, con visibile emozione la Dacia Maraini sussurra in TV che “era dagli anni 70 che non si vedeva una bella manifestazione di questo tipo…”. Così mi è riapparso il vecchio ciclostile sistemato nell’atrio dell’ateneo attorno al quale a gruppi, rigorosamente in eskimo e scarponcini, a turno, predisponevamo “l’arma segreta dell’agitazione” in migliaia di volantini da distribuire nelle “piazze”. Questo compito meramente esecutivo, lo affidammo alle donne: le eroine del ’68 che coralmente chiamammo “gli angeli del ciclostile”. Ai piani superiori si tenevano assemblee fiume in cui si parlava dell’universo mondo: passi ripresi a memoria da alcuni testi della scuola di Francoforte e dell’idolo del momento, Herbert Marcuse, in cui si metteva sotto accusa la società. Ricordo la retorica di quelle frasi smozzicate, infarcite da centinaia di “cioè”, espresse con maniacale veemenza che incitavano alla violenza, alla prevaricazione, alla conquista del mondo, della femmina, della strada, della libertà. Un puro esercizio dialettico, spesso patetico e inconcludente, dal sapore squadristico (come giustamente ricorda Vincenzo Bugliani), contro le strutture sociali dei decenni precedenti che purtroppo, secondo molti osservatori, si serviva delle rielaborazioni culturali ottocentesche, prive di nuove proposte politiche.
A tanti come il sottoscritto però interessava l’esame, entrare nel mondo del lavoro, affermarsi, scoprire la propria identità, trovare un equilibrio nel rapporto con chi dell’altro sesso volesse condividere l’”ansia” adolescenziale. Si capì subito che il retropensiero degli arringatori di turno era farsi notare dalle compagne per una “captatio-benevolentiae”, quella che la Maraini, a distanza di quarant’anni, sbagliando, stigmatizza come il portato di una “cultura che abbinava amore con possesso”. Fuori, sotto le finestre dell’università, le mattine seguenti si potevano rinvenire i simboli delle notti d’amore trascorse dai compagni asserragliati all’interno dell’ateneo. In realtà, inizialmente, per molti di noi era questo lo scopo del movimento, dove “fare movimento”, veniva percepito come “fare all’amore”. In quel tripudio giovanile scoprimmo che la donna era allo stesso tempo Angelo e Demonio e l’equilibrio interiore si poteva ritrovare unicamente nell’armonia dei contrasti.
Oggi però i termini “equilibrio” e “identità” a molti non piacciono, soprattutto a coloro che di quel periodo hanno assorbito la mentalità del pensiero debole, secondo cui “non bisogna parlare né di identità dell’io o del soggetto umano, né di identità italiana, né di identità europea o di identità occidentale, né di identità cristiana, né di qualsivoglia identità”, cosicché di quelle esperienze rimangono la presunta superiorità culturale di una sinistra nostalgica e di un femminismo esasperato che, appiattito su istanze antagoniste, ha ridotto la sua immagine a mero oggetto di seduzione. Ciò che ancor più attirava era il fascino del collettivo, dell’autogestione, dove mettersi in gioco rappresentava una palestra estremamente gratificante. Ben presto anche questo sogno svanì per far posto a ideologie avulse dalla realtà quotidiana, finendo per allontanare i giovani di buonsenso (manzoniano del termine). In Europa si capì molto prima che in Italia che il cosiddetto sessantotto sarebbe stato all’origine di molti mali, come il dilagare del relativismo etico e il terzomondismo opportunista. Ma tant’è.
Qual è dunque l’eredita che raccogliamo di quel movimento? Tra le tante cose positive possiamo annoverare maggiori garanzie, più libertà di criticare il potere, più lealtà nei comportamenti interpersonali e tra i sessi, maggiore attenzione per gli “ultimi”, ma assieme a queste conquiste il lascito peggiore sono i fantasmi del passato, sintetizzati da Lidia Ravera, (testimone diretta con il compianto Marco Lombardo Radice nel famoso libello “Porci con le ali” scritto a poco meno di due lustri da quel ’68) allorché in “La festa è finita” , Mondatori 2002, la stessa Ravera giudica quel periodo il momento più esaltante della nostra esistenza, ma che “col tempo, nel tentativo di scardinare la “struttura”, ha travolto anche quelle che i comunisti chiamano le “sovrastrutture” (i secolari valori del Vecchio Continente), finendo pertanto per essere una grande trappola”. E con essi sono riapparsi i “vecchi rottami” al riparo della lugubre ombra dell’integralismo islamico: estremo rifugio di tutte le ideologie dell’odio e della massificazione.

Francesco Pugliarello
Il Giornale della Toscana“, pag 1, (Quarant’anni dopo – Sessantotto, Violenza e Ciclostile)

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